L’ultimo rapporto pubblicato da Transport & Environment, la federazione europea per i trasporti e l’ambiente, forse per la prima volta mette in luce dall’interno alcune criticità della transizione energetica e del passaggio ad auto nuove solo elettriche a partire dalla metà del prossimo decennio.
In particolare, il rapporto si focalizza sul cosiddetto “esempio Polestar”, di cui parleremo tra poco, che può essere da spunto per evitare di far perdere alle potenze del Vecchio Continente la loro centralità in termini di produzione automobilistica, centralità in parte già persa.
L’esempio di Polestar
Come forse in pochi sanno, Polestar era la scuderia di Volvo nelle competizioni automobilistiche (abbiamo approfondito qui), ruolo oggi ricoperto da Cyan Racing con vetture Lynk & Co dopo che Polestar è divenuta un marchio indipendente per auto ad alte prestazioni solo elettriche, di proprietà di Volvo e, di conseguenza, di Geely. Ad oggi, nell’estesa galassia di marchi del colosso cinese, Polestar è quello che fa meglio per quanto riguarda le elettriche vendute, rappresentando il 40% di tutto il venduto a batterie.
Insieme a Tesla, Nio e BYD, l’azienda sino-svedese ha il merito, da una parte, di dare più scelta ai consumatori, e dall’altra di abbassare i prezzi dei veicoli elettrici e per questo è capace di smuovere il mercato. Questo può farlo, però, proprio perché è sia cinese che svedese: ha sede a Göteborg, come Volvo, e qui le sue auto vengono progettate e disegnate; ma finora tutte sono state prodotte in Cina, e non in Belgio, nonostante la Polestar 2 condivida la piattaforma con le Volvo XC40 e C40.
Ora, però, le cose stanno cambiando, perché c’è un altro paese che ha attirato il marchio sportivo, e sono gli Stati Uniti. Dal 2024, infatti, Polestar produrrà le sue auto, in particolare il grande SUV Polestar 3, anche nella nuova fabbrica nella Carolina del Sud, pensata appositamente per i mercati occidentali. Ed è forse il primo, o uno dei primi, dei nuovi marchi ad aprire uno stabilimento negli USA per vendere nell’UE. Di nuovo, quindi, Polestar “ignora” le fabbriche europee in Svezia e Belgio prediligendo un altro paese. Ma perché?
L’esempio degli States
Difficile non capire le ragioni di Polestar. Da una parte, sono ancora poche le fabbriche europee adatte a una produzione di massa di auto elettriche, e forse farà piacere sapere che molte delle più evolute sono proprio in Italia, il cui 20% delle auto prodotte sono proprio elettriche ed è ai vertici nella produzione di EV in Europa, checché se ne dica.
Dall’altra, ci sono grossi incentivi che l’amministrazione Biden dà a chi produce auto elettriche su suolo americano. Se Polestar compra batterie da fornitori conformi all’IRA, l’Inflation Reduction Act, può ottenere fino a 5.000 $ di contributo statale per ogni enorme accumulatore da 111 kWh della Polestar 3, contributo che si unisce al basso costo dell’energia rispetto all’Europa, e agli altri sussidi per i produttori che hanno una sede negli USA, come appunto Polestar.
Quindi, in USA, Polestar può ricevere ingenti contributi statali per la produzione. Poi, può spedire i suoi veicoli in Europa per venderli nel grande mercato del Vecchio Continente, di cui una grandissima parte è dato dalle auto aziendali che sono ben sovvenzionate in tutti i paesi.
Cosa può fare l’UE
La mossa di Polestar è quindi molto furba, ma non è l’unica. Anche Audi guarda agli USA, e persino i produttori di batterie come l’altrettanto svedese Northvolt non disdegna le offerte americane. L’UE, insomma, forse deve agire da questo punto di vista. Non che non lo stia facendo: ha aumentato le norme sugli aiuti di Stato permettendo ai singoli governi di poter eguagliare gli enormi sussidi americani (in USA gli incentivi arrivano a oltre 10.000 $) e, sulla carta, ha obiettivi produttivi grandi, come la costruzione di gigafactory, tecnologie verdi ed estrazione di minerali.
Manca però un sostegno commerciale ed economico a questi progetti, e manca una vera risposta agli USA, che infatti sovvenzionano ai cittadini solo l’acquisto di veicoli elettrici prodotti negli Stati Uniti. La mossa dell’UE dovrebbe essere sulla stessa linea, e quindi gli Stati membri dovrebbero avere la possibilità di incentivare solo alcuni tipi di auto, come appunto quelle prodotte all’estero in modo da mettere più in difficoltà tanto la Cina quanto gli Stati Uniti.
Altra mossa europea in atto è il piano NZIA, al momento solo una proposta, ma si spera diventi effettiva. Infatti, una volta approvata permetterebbe agli stati membri di escludere operatori troppo dominanti, con quote di mercato superiori al 65% in UE, da appalti e pubblici e sovvenzioni. L’obiettivo è evidente, ed è quello di rompere il monopolio cinese sui pannelli solari, e prevenire quello sulla produzione delle batterie: la Cina magari non vende ancora oltre il 65% di accumulatori in Europa, però controlla il 77% della produzione globale, e questo è un bel problema.
Infine, un’altra mossa saggia sarebbe incentivare la produzione, ma con un uso più saggio del denaro pubblico rispetto a quello americano, che ci costerebbe fino a 60 miliardi di euro l’anno. L’UE potrebbe contare su uno schema più modesto, mirato più alla catena di approvvigionamento e quindi alla lavorazione dei minerali delle batterie, che appunto permetterebbe di ridurre la dipendenza dalla Cina, e la sua posizione di predominio. Insomma, l’UE deve agire in fretta, e non è detto che queste misure siano totalmente efficaci. Ma, quantomeno, potrebbero far rimanere gli Stati Europei tra i produttori di auto, e non, per citare T&E, “una discarica per veicoli elettrici e batterie cinesi e statunitensi“.
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